Il volontariato turistico o volonturismo rappresenta la mobilità del futuro. Ma bisogna saperla gestire
Il volonturismo non è più un argomento riservato agli addetti ai lavori del settore turistico, o per abili linguisti alle prese con i giochi di parole. È una forma di mobilità reale, sempre più apprezzata dai giovani, che concilia due attività altrettanto popolari in Italia: il volontariato e il turismo. Ma partiamo dall’inizio.
Secondo i dati Istat, raccolti in collaborazione con la rete dei Centri di Servizio per il Volontariato e pubblicati nel dicembre 2017, nel 2011 i volontari italiani operativi nelle organizzazioni no profit del Belpaese erano circa 4 milioni e 759 mila. Quattro inverni dopo, nel 2015, la cifra cresce e raggiunge quota 5 milioni 529 mila persone: una differenza significativa che, negli anni seguenti, ha raggiunto numeri ancora più importanti. Secondo gli studi pubblicati nel volume “Volontari e attività volontarie in Italia. Antecedenti, impatti, esplorazioni”, edito da Il Mulino nel 2016, gli italiani alle prese con il volontariato sono più di 6,63 milioni. Insomma, quello del lavoro non retribuito è un trend in costante crescita. E se a tutta questa matematica si aggiungono i 66 milioni e 347 mila viaggi che gli italiani intrapreso nel mondo durante lo scorso anno, l’operazione è presto risolta. Il volonturismo non può che essere il viaggio del futuro.
Ma il viaggio del futuro, il volonturismo, ha radici ben salde nel passato.
Se il neologismo “volonturismo” è stato coniato solo recentemente, le ideologie su cui si basa nascono verso la fine degli anni ’60 del Novecento. Sono gli anni delle coroncine di fiori, della globalizzazione, dei movimenti ecologisti e pacifisti, della lotta per i diritti delle minoranze. Nel periodo hippie della storia (inter)nazionale anche i viaggi diventano sempre meno elitari: le persone non vogliono solo visitare posti nuovi e chic, aspirano a vivere nuove esperienze, in linea con un mondo non più locale ma globale. Così il volontariato turistico – in cui le comunità locali interagiscono attivamente con il viaggiatore, che tramite la forza lavoro contribuisce alla realizzazione di progetti di utilità socio ambientali – diventa la soluzione ottimale, capace di conciliare l’idealismo e il bisogno d’azione sessantottini. È vietato, però, affermare che il volonturismo sia un’occupazione estiva per hipster nostalgici. Nei paesi anglofoni, e in particolare negli UK, i giovani rampolli vengono da tempo spronati a prendersi un “anno di riflessione” prima di accedere nelle università. Si chiama gap year e, per gli atenei di Cambridge e Oxford, è un prerequisito fondamentale per l’ammissione – gli stessi principi William ed Harry hanno partecipato a diversi progetti di volontariato tra Africa, Belize e Cile.
Eppure esiste il rovescio della medaglia. Esiste un volonturismo selvaggio, inconsapevole, che le comunità autoctone non hanno le risorse per sostenere.
La colpa non è del volontario che, armato da buone intenzioni, e spesso anche di pale e secchi, mette a disposizione il suo tempo e le sue competenze per una causa superiore. Sono le organizzazioni non governative ad avere l’obbligo morale di tutelare le comunità locali, assicurandosi che l’attività del volonturista sia realmente sostenibile. Sfamare un singolo volontario, procurargli acqua e cibo, avrà un certo impatto economico sulla popolazione ospitante. Per un paese industrializzato tale perdita sarà minima. Per un paese del terzo mondo o in via di sviluppo, in cui gli stessi volontari potrebbero essere stati chiamati per contribuire alla costruzione di un pozzo, la situazione sarà invece più gravosa. Il rischio è che molte ONG attirate dalle fee, dai contributi spesso richiesti ai volontari per partecipare ai diversi progetti, non badino affatto agli interessi dei locali. Ecco perché servono pochi volontari, ma con abilità specifiche: «Se i volontari si dimostrano sinceramente interessati ad aiutare le comunità native, charities e ONG dovrebbero prendersi il giusto tempo per impiegarli nei progetti più adatti alle loro personali capacità» avverte Matthew Jenkin dalle pagine del The Guardian. Del resto, trascorrere ore sotto il sole cocente del Burkina Faso, scavando la terra indurita, non è per tutti. Tantomeno alla prima esperienza di volontariato all’estero. Si può essere altrettanto utili, e conoscere nuove realtà, anche insegnando l’Inglese o parlando di prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili. E non si sviene sotto il sole, per cui non avrete bisogno di troppa acqua.