Salvare l’ambiente a partire dall’armadio. Il futuro della moda, l’ecosostenibilità, affonda le radici nel passato, in quei tessuti un tempo considerati grezzi o poco elitari, come la canapa e il cotone. Quello della moda ecosostenibile rappresenta un nuovo e più consapevole approccio al mondo del fashion, business che, se fosse una nazione, sarebbe la settima più industrializzata del mondo. Lo ha decretato una ricerca della McKinsey&Company, che aggiunge riferimenti numerici ben precisi: l’innovazione responsabile è uno dei 10 megatrend del settore moda per i prossimi 10 anni. Più del 65% dei consumatori provenienti dai mercati emergenti (Cina e India in primis) e il 32% di quelli europei e statunitensi fanno ricerca attiva prima dei loro acquisti, data la nuova tendenza al green. Sono dati importanti, che i più noti brand non hanno potuto ignorare.
La moda sostenibile mixa i diktat del fashion con l’empatia
La pioniera della moda etica ha il nome di Stella McCartney, che con le sue pellicce-senza-pelliccia ha coniugato la causa vegetariana e le tendenze del lusso. Con diversi anni di anticipo sulla tabella di marcia: correva l’anno 2001 quando la figlia di Paul dei Beatles debuttava con i primi capi fur-free, senza pelliccia, e leather-free, senza pellami. “Trattiamo gli animali e gli habitat in cui essi vivono con rispetto. Promuoviamo un’etica cruelty-free e cerchiamo di trovare sempre nuoci modi per creare materiali sostenibili” si evince sul sito della casa di moda.
Sono proprio questi ultimi, i materiali sostenibili, la chiave primaria del successo della neonata ecoindustria: di origine naturale, non contenenti OGM, senza tossine residue dall’estrazione e dalla lavorazione. A comprovarlo, certificazioni come Reach e Oeko Tex Standard 100. Ma non è tutto. I pilastri del sustainable fashion sono molteplici: al rispetto per l’ambiente e gli animali, si aggiunge quello per le persone. Le condizioni di lavoro dei dipendenti passano in primo piano, per scongiurare quegli scandali che hanno affossato la reputazione di molti marchi famosi, rei di sfruttamento minorile e non solo.
Consapevole della potenzialità di questa nuova e non effimera moda, l’industria tessile si ingegna a fornire prodotti di prima qualità, senza trascurare il design e la bellezza estetica. Vivienne Westwood, designer britannica e vegetariana convinta, non rinuncia al suo caratteristico stile punk e opta per tessuti naturali, dai colori vividi, trattati in maniera da inquinare il meno possibile. Il suo claim “Buy less, choose well, make it last” è un inneggio al risparmio e, perché no, al riciclo intelligente.
Moda sostenibile, tra vergogna e pregiudizio
Secondo Francesca Romana Rinaldi, docente dell’Università Bocconi e direttrice del master in Brand&Business Management al Milano Fashion Institute, i pregiudizi questa moda rispettosa della Terra sono ancora tanti, troppi. «“È roba da hippie” “È carissima e difficile da trovare” “I tessuti sostenibili sono brutti”. I miti da sfatare sono parecchi» divulga tramite il blog di Orange Fiber, un’azienda italiana che produce fibre tessuti dai sottoprodotti agrumicoli. Già, perché se pensate che sia impossibile vestirsi con le arance, sappiate che ricavare fibre tessili anche dal caffè, dal guscio dei granchi e persino dal latte è realtà.
I preconcetti sono smentiti da ANTER Italia, l’associazione nazionale che tutela le energie rinnovabili, la quale riconosce il riuso come il vero punto di partenza per un’industria sempre più attenta all’ambiente. In meno di venti anni il volume di indumenti distrutti si è moltiplicato, raddoppiando da 7 a 14 milioni di tonnellate. Insomma, reinterpretare i vecchi indumenti non è più una lettera scarlatta, ma una scelta intelligente ed ecosostenibile da vantare con orgoglio.