Oltre le critiche al volonturismo, anche i (volon)turisti vanno istruiti e resi consapevoli circa il loro ruolo. Con norme comportamentali precise
Fioccano le critiche sul mondo del volonturismo e dei volonturisti, che il noto giornalista italiano Giulio Meotti, dalle pagine virtuali de Il Foglio, arriva a definire «narcisisti piagnoni» (Il sefie di colpa, 29 agosto 2016). Quello dell’intellettuale è un appellativo sensazionalistico e non di certo super partes, seguito da una lunga analisi dedicata all’ascesa del fenomeno. Non entrerò in merito all’esattezza della stessa sebbene, a conti fatti, non si possa fare a meno di constatare una criticità distruttiva, che non apporta alcun valore aggiunto alla causa di solidarietà.
Nonostante il fenomeno del narcisismo sia oggi prevalentemente associato al culto della prestanza fisica, è infatti una vera e propria etichetta psicologica «di chi fa di sé stesso, della propria persona, delle proprie qualità fisiche e intellettuali, il centro esclusivo e preminente del proprio interesse e l’oggetto di una compiaciuta ammirazione, mentre resta più o meno indifferente agli altri, di cui ignora o disprezza il valore e le opere» (dall’enciclopedia Treccani). Pertanto, la definizione di Meotti pare non adattarsi affatto a chi dedica il proprio tempo, la propria forza lavoro, e anche parte dei propri soldi – tra quote e tesseramenti alle diverse associazioni – al sostentamento di cause non direttamente concernenti la propria persona. Quelle di Meotti sono parole molto dure che non solo non descrivono appieno le infinite sfaccettature del volonturismo e del volontariato internazionale, ma anzi contribuiscono alla generazione di diversi luoghi comuni.
Istruire i turisti-volontari sull’importanza del loro ruolo si dimostra molto più costruttivo che colpevolizzarli a causa della loro sensibilità.
Come quelle di molte altre istituzioni, le attività volonturistiche hanno punti di forza e di debolezza. Ed è compito delle ONG colmare le lacune del volonturismo selvaggio.
Il vero volonturismo, che Gianrico Carofiglio definirebbe “con i piedi nel fango”, è ben diverso da quello promosso dalle star, teso a sensibilizzare l’opinione pubblica piuttosto che ad aiutare concretamente le comunità locali. Il rischio dell’eccessiva spettacolarizzazione della povertà e del dolore rischia di perpetrare stereotipi centenari, particolarmente dannosi per i paesi sottosviluppati o in via di sviluppo, in cerca di ingenti investimenti più che di una lacrimosa compassione fine se stessa.
Ma non esiste solo il volonturismo umanitario, spesso accompagnato da (discutibili) selfie acchiappalike insieme a orfani e bambini malati. E molti intellettuali, bombardati da quelle immagini che tanto criticano, lo dimenticano.
Sono molti i progetti a cui un volontario può aderire, in accordo con le proprie reali competenze. E anche il viaggiatore volontario segue – o meglio, dovrebbe seguire – un preciso codice comportamentale, perfettamente esposto nella Charte éthique du voyageur. Il documento, redatto dall’associazione francese ATR (Agir pour un Tourisme Responsable) nasce per promuovere un turismo responsabile e rispettoso delle diversità culturali. Il principio fondativo è che «il n’y a pas de mauvais touristes, mais des voyageurs mal informés », non esistono cattivi turisti, ma solo dei viaggiatori male informati.